I Tipici

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Canestrato Pugliese DOP

La vocazione silvo-pastorale dell’Alta Murgia ha una storia millenaria che si intreccia con quella del canestrato pugliese, legato alla transumanza delle greggi da dicembre a maggio tra le montagne dell’Abruzzo e il Tavoliere delle Puglie. Tipico delle province di Foggia e Bari, deve il suo nome ai canestri di giunco, le cosiddette fiscelle, dentro i quali  trascorre la prima parte della stagionatura e che sono uno dei prodotti piú tradizionali dell’artigianato locale . Il suo nome deriva dai canestri di giunco pugliese, entro cui lo si fa stagionare, i quali sono uno dei prodotti più tradizionali dell’artigianato locale L’ arte casearia che dà origine a questo prodotto ha fatto sì che esso divenisse un alimento tipico con il marchio DOP con D.p.r. del 10 set. 1985 e a Denominazione di origine protetta nel 1996 con il reg. n.1107/96 Descrizione:  Formaggio stagionato a pasta dura non cotta prodotto esclusivamente con latte di pecora intero proveniente da una o due mungiture giornaliere. La crosta di colore marrone tendente al giallo, più o meno rugosa dura e spessa, viene trattata con olio di oliva miscelato ad aceto di vino. Il colore della pasta è di colore giallo paglierino più o meno intenso in relazione alla stagionatura, che i protrae da 2 a 10 mesi in locali freschi debolmente ventilati. La pasta ha struttura compatta alquanto friabile, discretamente fondente, e sapore piccante caratteristico piuttosto marcato. E’ un ottimo formaggio da tavola insieme a fave, pere o verdure crude in pinzimonio  e vini bianchi o rosati secchi quando è più giovane; accompagnato da sedano, cicoria, olive nere e ravanelli e servito, scheggiato dalla forma, insieme a vini rossi strutturati ed invecchiati, se è più stagionato. Ma trova la sua massima espressione, quando la maturazione non è inferiore a 6 mesi, grattugiato su piatti di pasta asciutta al ragú di carne o di involtini.  Disciplinare

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Limone di Sorrento IGP

Di origini antiche, se è vero che la presenza di limoni nell’area sorrentina è certificata da documenti storici del 1500, il “Limone di Sorrento” IGP ha in effetti antenati genetici che risalgono addirittura all’epoca romana. Su numerosi dipinti e mosaici rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano sono raffigurati infatti limoni molto simili agli attuali “massesi” e “ovali sorrentini” che testimoniano l’utilizzo di tali frutti profumati sulle mense dei nostri avi latini. Ma le più importanti documentazioni sulla presenza di limoni nella zona risalgono all’epoca rinascimentale. Atti di vendita, dipinti, trattati di letteratura e di botanica ci raccontano dell’impiego dei limoni prodotti localmente per i più svariati usi, anche se dobbiamo attendere il 1600 per avere la certezza della coltivazione in forma specializzata, come risulta dagli atti dei locali Padri Gesuiti. Ancora oggi esiste uno dei primi fondi coltivati, nominato appunto “Il Gesù”, situato nella Conca di Guarazzanno, tra Sorrento e Massalubrense. Questa testimonianza avvalora la tesi che è proprio da questi due comuni della Penisola Sorrentina che hanno avuto origine i nomi della varietà da cui si trae il prodotto: “Ovale di Sorrento” e “Massese”. Citato nelle opere di Torquato Tasso, nativo proprio di Sorrento, Giovanni Pontano e Giambattista della Porta, il “Limone di Sorrento” arriva fino all’800, quando lo storico Bonaventura da Sorrento ne testimonia la spedizione in tutto il mondo, soprattutto attraverso i bastimenti diretti verso l’America. Si deve comunque alla tenacia e alle capacità dei produttori locali, che sono andate sviluppandosi nel corso dei secoli, se oggi disponiamo di un prodotto altamente selezionato e di assoluta qualità. E’ soprattutto grazie al loro impegno che lo stesso paesaggio è andato a conformarsi alle loro esigenze: i famosi terrazzamenti e le mitiche “coperture” dei limoneti, qui denominati a giusta ragione “giardini di limone”, connotano fortemente la penisola sorrentina e contribuiscono alla sua fama nel mondo. Le caratteristiche di qualità del “Limone di Sorrento” IGP sono esaltate dalle particolari tecniche di produzione, ancora legate alla coltivazione delle piante sotto le famose “pagliarelle”, stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento e per conseguire anche un ritardo della maturazione dei frutti, che rappresenta uno dei principali elementi di tipicità di questa produzione. Area di produzione Il “Limone di Sorrento” IGP viene coltivato in tutti i comuni della Penisola Sorrentina e precisamente: Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento, Vico Equense, oltre che nell’isola di Capri, con i due comuni Capri ed Anacapri. fonte regionecampania.it

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Strachìtunt DOP

Una delle gemme più rare e preziose delle Prealpi italiane, lo Strachitunt è un saporito formaggio erborinato dalle antiche origini prodotto in Valle Brembana, Valle Taleggio e Valsassina, il cui nome deriva dalla traduzione bergamasca di stracchino tondo. È un formaggio a latte vaccino intero crudo, prodotto con l’antica tecnica delle due paste, che consiste nell’unione a strati della cagliata della sera, o cagliata fredda, lasciata sgocciolare in tele di lino per almeno 12 ore, con la cagliata della mattina, o cagliata calda. Da quest’unione si ottiene un formaggio a forma cilindrica con pasta compatta, marmorizzata, bianca con piccole venature verde-bluastre. La crosta è sottile e rugosa a volte fiorita di colore giallognolo tendente al grigio. Il sapore è aromatico ed intenso, variabile da dolce a piccante e può assumere connotazioni più pronunciate con il protrarsi della stagionatura. Allo Strachitunt è stato recentemente riconosciuto il marchio DOPLo strachitunt è un formaggio storico che ben rappresenta, insieme al Taleggio, la tradizione casearia della Val Taleggio. Ritenuto l’antenato del Gorgonzola, viene prodotto ancora con le tecniche tramandate nei secoli,partendo dal latte, che è lavorato crudo, quindi senza nessuna pastorizzazione così come avveniva un tempo. Il disciplinare prescrive altresì che il latte venga munto da vacche di sola razza Bruna Alpina, che pascolino e vivano stabilmente durante tutto l’anno nel territorio della Val Taleggio (e limitrofi) e che vengano alimentate con razioni che siano composte per almeno il 70% da erbe o fieno. .L’allevamento dei bovini da latte e l’attività casearia sono state da fin dai tempi remoti, con quella del taglio e dello sfruttamento del bosco, le fondamentali fonti di sostentamento della gente della Valle Brembana e in particolare di quella della Val Taleggio, una valle bella ma sostanzialmente povera. A testimoniarlo, oltre che la tradizione orale, vi sono diversi riferimenti bibliografici.Secondo lo scrittore romano Strabone durante la dominazione romana, gli abitanti delle nostre valli, per procurarsi le cose più necessarie alla vita, scendevano verso i centri abitati portando in cambio resina, miele e formaggio. Sembra infatti che l’industria casearia fosse già allora molto fiorente. Sicuramente quell’industria si è notevolmente sviluppata nel corso del Medioevo (come testimoniato da una pergamena del 1380 vista in copia da Francesco Biava Salvioni1, dopo la metà del 1300), la Valle, come segno di sudditanza, è obbligata a mandare al duca di Milano – ducentum pensa casei boni pulchri ac bene axaxonati -. Duecento pesi (un peso valeva oltre 7 kg) di “formaggio bello e buono e ben stagionato”. Forma dialettale di “stracchino rotondo”, lo Strachítunt rappresenta una variante artigianale e di grandissimo pregio della Val Taleggio. E’ un formaggio a due paste, cioè ottenuto mescolando la cagliata della sera con quella del mattino.Il latte, proveniente da allevamenti della stessa provincia di Bergamo, fresco e intero della mungitura serale è lavorato con una tecnica simile a quella di tutti i formaggi stracchini.Si usa circa il 17% di latte intero sul quantitativo totale che si desidera produrre, e lo si lavora appena munto.Nel caso si fosse raffreddato lo si porta a 37-38 °C e vi si aggiunge il caglio.Si lascia coagulare ed estratta la cagliata la si lascia raffreddare in teli di lino posti a sgocciolare per tutta la notte a circa 18°C, in ambienti con elevata umidità.Il giorno dopo, con identica lavorazione, si lavora un quantitativo di latte pari all’83% del totale. Si estrae la cagliata, sempre in teli di lino e la si lascia sgocciolare per circa 30 minuti. Quando si pone la nuova cagliata negli stampi rotondi, si alterna uno strato di cagliata appena prodotta, e quindi calda, e uno della sera precedente e quindi fredda, sbriciolandola uniformemente sul primo strato e amalgamandola in parte con lo strato sottostante. Si procede in questo modo formando solitamente 5 strati di cagliate, tre della mattina e due della sera.Una volta costituita la forma definitiva si procede alla stufatura e alla salatura a secco, la prima volta la sera stessa e la seconda la mattina seguente.Dopo circa 30 giorni, la forma è bucata per favorire lo sviluppo delle muffe.Le due cagliate, infatti, avendo diversa consistenza, non si amalgamano bene e lasciano dei piccoli spazi che in seguito alla foratura si riempiono di aria. È proprio in questi spazi che le muffe naturali iniziano a sviluppare la loro caratteristica efflorescenza.La produzione migliore si ottiene durante l’estate, probabilmente per il più alto carico microbico e per la temperatura più indicata per questo tipo di lavorazione. Tra la versione invernale e quella estiva, come tutti i formaggi a latte crudo, vi sono delle differenze organolettiche le quali diventano sostanziali tra la versione di alpeggio (baite in montagna) e quella di caseificioIl gusto varia, infatti, con il prolungarsi della stagionatura, perché le muffe si moltiplicano e tendono a dare una punta di amaro, come peraltro succede con il gorgonzola.Con stagionature brevi, invece, il gusto dolce della pasta è predominante e rende il prodotto molto delicato.Ogni forma è un piccolo capolavoro di artigianalità: nella pasta si formano naturalmente quelle muffe che alla bontà e genuinità del prodotto aggiungono, con l’affinamento, la giusta piccantezza. Quando lo assaggerete, chiudete gli occhi e pensate a quanta storia, tradizione ma anche fatica, sacrifici e amore per la propria terra si cela dietro a questo piccolo-grande prodigio: solo così potrete dire di aver gustato a pieno lo STRACHITUNT.

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Il Grana Padano DOP

Il Grana Padano nacque intorno all’anno mille, nell’area lombarda compresa tra il Po a sud e Milano a nord, e delimitata dai fiumi Adda e Mincio. In quel periodo, l’opera di bonifica compiuta dai monaci Cistercensi dell’abbazia di Chiaravalle diede vigore all’allevamento del bestiame, determinando una produzione di latte decisamente superiore al fabbisogno della popolazione. Fu proprio per sfruttare l’eccedenza di latte che i monaci, con geniale intuizione, misero a punto la “ricetta” del Grana Padano, un formaggio a pasta dura che, stagionando, manteneva i principi nutritivi del latte di partenza, concentrati e arricchiti di un gusto inconfondibile, fatto di colori, sapori e profumi che meritano di essere conosciuti e apprezzati.L’origine della produzione è contesa tra Lodi e Codogno, ma si è presto diffusa dagli Appennini alle Alpi, comprendendo l’intera vallata del Po; fonti del XII secolo già documentano la nascita dei primi caseifici.La lunga conservabilità ne ha favorito il fiorente commercio ben oltre i confini della zona di produzione, fino alle tavole delle corti rinascimentali. Durante gli anni di carestia però, riuscì anche a sfamare la gente delle campagne, diventando poi uno dei pilastri dell’economia agricola padana.Il rispetto delle antiche metodologie produttive ha permesso di mantenerne inalterati nei secoli il sapore e l’aspetto e per garantire e proteggere la tipicità della produzione, nel 1954 viene costituito il Consorzio di Tutela , allo scopo di promuovere anche la ricerca tecnica per un continuo miglioramento della qualità.Il mercatoInsieme, il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano coprono più dell’85% di tutto il mercato italiano dei formaggi duri. Due gi-ganti assoluti, quindi, che se da un lato presentano innegabili elementi di somiglianza, dall’altro si diversificano per alcune particolarità essenziali che li rendono inconfondibili nelle rispettive caratteristiche di gusto, aroma e consistenzaLa presenza del marchio è già un’implicita garanzia di qualità.La forma non deve presentare al suo interno spaccature o crepe, difetti che possono preludere a squilibri di sapore (soprattutto verso un piccante improprio), la crosta deve avere un giusto spessore (5 – 6 millimetri), mentre la pasta deve mostrare una consistenza soda e decisa, con una buona resistenza alla penetrazione.Sulle caratteristiche del formaggio incide naturalmente anche il tempo di stagionatura: col passare del tempo, il grana incrementa una piacevole tendenza a fondersi in bocca. Un carattere di qualità è anche nella struttura “a scaglia”, per cui, nel prodotto molto maturo, la pasta si stacca a lingue sottili, secondo una disposizione a raggi convergenti verso il centro della forma. L’eccesso di secchezza e l’eventuale sabbiosità non sono caratteri positivi, mentre la presenza di granuli bianchi nella pasta non è da valutare negativamente.

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Pizzoccheri della Valtellina PAT

I pizzoccheri sono il piatto simbolo della cucina tradizionale Valtellinese, conosciuti un po’ ovunque e molto apprezzati soprattutto nei mesi freddi. Il nome “pizzoccheri” sembra derivare dalla radice “pit” o “piz” col significato di pezzetto o ancora dalla parola pinzare col significato di schiacciare, in riferimento alla forma schiacciata della pasta. Altre ipotesi farebbero risalire la parola pizzoccheri dal longobardo bizzo, ovvero boccone, ma questa ipotesi etimologica è piuttosto improbabile. Parlare del pizzocchero è difficile. È sempre complicato descrivere i cibi genuini e scriverne è quasi impossibile perché la parola riduce la sensazione a pochi tratti, troppo essenziali. Tuttavia, volendone dar conto, si deve assolutamente passare attraverso la descrizione dell’incanto che gustandolo si prova. Il pizzocchero (che è sempre detto al plurale) è una tale e specifica unione di ingredienti semplici che trova, nell’equilibrio e nella fusione delle sostanze, la sua più alta affermazione. Dunque: i pizzoccheri di Teglio sono armonia e gusto e portano direttamente ai piaceri della vista, del palato e della gola. Sono un piatto tipico che nasce da una combinazione tra diverse sostanze genuine e che soddisfano – ciascuna – uno specifico momento del mangiare. Fumanti arrivano in tavola, ma già si era diffuso nell’ambiente il loro buon odore, scaturito dalla combinazione delle parti, spinto dai vapori che – usciti dall’acqua bollente – segnalavano l’esatta cottura della pasta. La rosolatura del burro, con un poco d’aglio, aveva anticipato all’olfatto il successivo incanto della vista che godeva, dai piatti distribuiti sulla tavola, il trionfo e il piacere delle tagliatelle condite. L’insieme era stato dunque immaginato,poi aspirato e annusato e infine ammirato, apprezzato. Sui piatti, nelle singole porzioni, è stato eccitato da una spruzzata di pepe nero, a volontà. Ingredienti: Formaggio semigrasso della Valtellina “CASERA” (180 g), Pizzoccheri(420 g), Patate (180 g), Verza (180 g), Burro (30 g), Salvia (n.5 foglie), Pepe (q.b.), Sale (q.b.) Descrizione: Pelare e tagliare a pezzi le patate, lavare e tagliare a strisce le verze, cuocere in una pentola con acqua salata le patate e le verze, tagliare il formaggio a fettine sottili. A cottura ultimata, unire i pizzoccheri e cuocere per 10-15 minuti, scolare ancora al dente. Nel frattempo rosolare le foglie di salvia nel burro, porre i pizzoccheri in una zuppiera, unire il formaggio, il burro e la salvia ed amalgamare accuratamente. Servire, unendo del pepe a parte

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Broccolo Fiolaro di Creazzo PAT

Il “broccolo fiolaro di Creazzo” è un prodotto oggi molto apprezzato per le sue proprietà alimentari, mentre un tempo era definito cibo dei poveri.Il nome di questo ortaggio deriva dalla presenza di germogli inseriti lungo il fusto della pianta, conosciuti in termine dialettale come “fioi” e che vengono cotti in padella, insieme alle foglie più giovani, come una vera prelibatezza. Si tratta di un prodotto che ha la particolarità di non assomigliare né per forma, né per gusto alle altre varietà di broccolo. Come ricorda Antonio di Lorenzo, in un saggio dedicato al broccolo di Creazzo, il primo ad innamorarsi di questo prodotto tipicamente vicentino fu Johann Wolfgang Goethe, durante la tappa a Vicenza del viaggio in Italia che il poeta tedesco intraprese nel 1786.La produzione ed il commercio del broccolo hanno costituito un’importante fonte di sostentamento per numerose famiglie di Creazzo negli anni ‘60-’70, quando il prodotto raccolto veniva commercializzato soprattutto nella città di Vicenza, dove giovani e vecchi conferivano il prodotto confezionato nelle “sacare”, specie di corone ottenute infilando i broccoli nelle “strope”Il “broccolo fiolaro di Creazzo” trova molteplici impieghi nell’arte culinaria, infatti viene utilizzato per realizzare torte salate o sformati. Può essere assaporato anche crudo in insalata assieme ad altre verdure. Trova valido utilizzo per i primi piatti, come ripieno di tortelli, gustosi pasticci, zuppe e minestre. Come contorno, da abbinare preferibilmente a bolliti od arrosti, viene servito in vari modi: cotto al tegame, gratinato con la besciamella, bollito e condito con olio, sale e pepe. Ottimo infine comeripieno delle carni di pennuti.

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Maccheroncini di Campofilone IGP

Una citazione di questo tipo di pasta la si trova nel ‘400 in una corrispondenza dell’Abbazia di Campofilone in cui è riportato che i maccheroncini erano “tanto delicati da sciogliersi in bocca”. Si parla di maccheroncini anche nelle ricette del 1700 e del 1800, riportate nei quaderni di cucina di alcune case nobili come i conti Stelluti-Scala e i conti Vinci. La produzione dei maccheroncini di Campofilone si identifica nel territorio del comune di Campofilone, un paesino posto sulle verdi colline marchigiane in provincia di Fermo, e si distinguono dalle altre paste alimentari perché la farina deve essere impastata solo con uova di gallina nella proporzione che varia, per ogni kg, da un minimo di 7 a un massimo di 10 nel caso di utilizzo di uova intere, oppure se espressa in valore percentuale  è pari a un minimo del 33%. Si usa generalmente semola di frumento duro oppure, a livello familiare, farina di grano tenero doppio zero purché abbia glutine forte con notevole capacità di assorbimento. L’impasto ottenuto, duro ed elastico, rimane poroso mentre la sfoglia sottile e uniforme nello spessore, rimane morbida. Il prodotto si presenta come un insieme di sottili fili. Per questo prodotto è all’esame dell’Unione Europea la richiesta di registrazione come indicazione geografica protetta (IGP). Si procede all’impasto degli ingredienti senza aggiunta di acqua. L’impasto viene sfogliato a mano oppure estruso in bronzo e sfogliato su rulli fino ad ottenere la sfoglia di spessore compreso tra 0,3 e 0,7 mm. Successivamente si procede al taglio mediante l’utilizzo di un coltello affilatissimo ottenendo in tal modo dei fili sottili che verranno poi mediante la lama di un coltello separati e disposti a treccia su fogli di carta bianca per alimenti di larghezza compresa tra 22 e 26 cm e lunghezza compresa tra 32 e 35 cm. I foglietti così ottenuti hanno un peso compreso tra 155 e 175 g ciascuno e vengono piegati, nella maniera tradizionale, ai quattro lati per evitare la fuoriuscita del prodotto e ordinatamente riposti in appositi telai. Quest’ultimi vengono quindi inseriti in apposite stanze di essiccazione ad una temperatura compresa tra 28 – 40 °C per una durata compresa tra le 24 e le 36 ore e successivamente confezionati. I Maccheroncini di Campofilone si distinguono decisamente dalle altre paste alimentari per la sottigliezza della sfoglia ed il taglio finissimo. Tali caratteristiche consentono al prodotto un ridottissimo tempo di cottura pari ad uno/due minuti nell’acqua bollente o direttamente nel condimento senza necessariamente essere lessato.Altra fondamentale caratteristica che dimostra l’unicità dei Maccheroncini di Campofilone è la  percentuale di uova che viene utilizzata nell’impasto. Essa, infatti, è nettamente superiore rispetto a quella utilizzata in altre tipologie di paste alimentari. Tale proporzione unitamente al processo di essicazione lento determina un’elevatissima resa del prodotto, infatti mentre 250 g di pasta generica corrispondono a 2 porzioni abbondanti, dallo stesso quantitativo di Maccheroncini di Campofilone si ottengono 4 porzioni.Questa capacità di resa dei Maccheroncini di Campofilone determina come conseguenza la capacità assorbente della pasta che trattiene una quantità di condimento superiore rispetto ad altre tipologie di pasta La valenza dei Maccheroncini di Campofilone sta nell’aver conservato immutata nel corso degli anni la tecnica di lavorazione, mantenendo inalterata la sua semplice e particolare composizione, il particolare tipo di essicazione, nonché nel fatto che si tratta di un prodotto che richiede, per la sua realizzazione, particolari doti di abilità e esperienza, caratteristiche queste che ne fanno una pasta dalle qualità in termini di resa, di gusto, di leggerezza e di facilità di cottura del tutto particolari.Parlare dei Maccheroncini di Campofilone significa parlare dell’espressione più autentica della cultura del territorio campofilonese. La produzione artigianale di questa pasta è la manifestazione della tradizione popolare del borgo medioevale di Campofilone tramandata di generazione in generazione. Le uova in particolare, non sempre a disposizione nel corso dell’anno e dipendenti dal ciclo biologico delle galline, hanno stimolato l’ingegno e la fantasia delle vergare campofilonesi che hanno iniziato a fare la pasta in casa, dapprima fresca e poi realizzando quello che sarebbe diventato un processo di essiccazione. La pasta essiccata infatti era più conveniente di quella fresca perché si conservava nella madie e poteva essere consumata durante tutto l’anno. La grossolanità del taglio aveva però un inconveniente: l’aria nel processo di essiccazione incurvava la pasta che si rompeva in più punti e non poteva essere degustata nella sua interezza. Allora le argute massaie hanno iniziato a tagliare la “pannella ” in fili sottilissimi, che non si spezzavano sotto l’azione dell’aria, restando intatti sino al consumo.L’arte dei Maccheroncini di Campofilone è nata dunque nelle cucine e poi nei laboratori artigianali e da allora questi sottilissimi fili di velo dorato hanno sempre rivestito un’importanza particolare, discostandosi dai piatti di “tutti i giorni”, rappresentando il piatto per eccellenza, simbolo di bravura della padrona di casa, nei pranzi di festa Una delle occasioni da non perdere per assaggiare la specialità gastronomica di Campofilone è la sagra. La nascita di questa festa risale al 1964 e da allora si svolge ogni anno, tre giorni nella prima decade di Agosto.

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Signora di Conca Casale PAT

La Signora di Conca Casale (PAT) è un insaccato di carne suina, di grande pezzatura, tipico di alcune zone montuose del Molise. A differenza di altri salumi della pratica gastronomica molisana, la Signora non fa parte di una tradizione povera, ma è considerato un prodotto pregiato e particolare. I tagli pregiati richiesti dalla lavorazione, e la grande pezzatura in cui viene realizzata,da 800 grammi fino a 5 kg, fanno sì, ad esempio, che da ogni capo possa essere realizzata un solo salume. E’ sicuramente uno dei salumi meno conosciuti della regione, prodotto nel piccolo centro tra i monti sopra Venafro. La sapienza produttiva è affidata a poche anziane signore che continuano a realizzare questo straordinario salume, oggi tutelato da un presidio Slow Food e dalla comunità locale. Le materie prime sono quelle derivate dal filetto e dalla spalla del maiale, il lardo della pancetta e del dorso. Tutto viene ridotto a punta di coltello e lasciato maturare per qualche ora dopo aver conciato il composto con pepe nero in grani, coriandolo, peperoncino rosso in polvere e finocchietto selvatico.Il budello cieco del maiale viene lavato accuratamente con farina grezza di mais rosso, arance, limoni, aceto e vino e questo “lavaggio” conferisce al sapore una particolare nota di agrumi. Il composto viene quindi insaccato sapientemente nel budello con grande perizia aiutandosi con una macchina ad imbuto. Legato accuratamente viene posto ad affumicare in idonei locali curandolo con grande attenzione. La Signora è prodotta nei periodi più freddi dell’inverno e la maturazione ottimale avviene dopo non meno di sei mesi. Si consuma piacevolmente in estate in grandi fette.

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Crudo di Cuneo DOP

La zona di produzione ha da secoli una vocazione all’allevamento dei suini e alla lavorazione delle loro carni. I prodotti ottenuti, fra cui i prosciutti, hanno rappresentato una fonte alimentare insostituibile sia per l’apporto proteico che per i grassi, essendo l’area priva di fonti alternative quali l’olivo. Gli innumerevoli conventi e abbazie presenti sul territorio possedevano allevamenti e destinavano locali alla macellazione e lavorazione delle carni suine. Frammenti di libri contabili del Monastero degli Agostiniani di Fossano – Cussanio, del 1630 circa, parlano della stagionatura dei prosciutti nella “stanza del paradiso”, della destinazione della “noce” (parte nobile) per la tavola del vescovo e dell’abate e del “fiore” ai frati anziani e alle persone degne di riguardo. Il microclima condizionato da una parte dalle correnti d’aria tiepide e secche che salgono dalla Liguria e dalla Provenza e dall’altra dalle correnti d’aria che scendono dalla Val Susa creando una sorta di barriera ventosa, garantisce condizioni di bassa umidità relativa che, insieme alle escursioni termiche stagionali e giornaliere, contribuiscono in modo peculiare nella fase di stagionatura, agendo sul sapore e sull’odore caratteristico del prodotto. Il tempo di stagionatura minimo è di 10 mesi dall’inizio lavorazione, il peso compreso fra 7 e 10 Kg a stagionatura ultimata.

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