Campania

I Tipici

Prosciutto di Pietraroja PAT

Il prosciutto di Pietraroja, comune della provincia di Benevento, è rinomato da secoli, tanto che in una collezione di stampe dell’archivio del Regno di Napoli il simbolo di questo piccolo paese del Beneventano rappresenta una donna con un prosciutto Apprezzati già nel Settecento, questi prosciutti di grosse dimensioni vengono prima lasciati riposare per circa venti giorni senza conservanti e con una modesta quantità di sale grosso (grazie al clima fresco e ventilato si conservano comunque). In seguito vengono appesi ad asciugare in un luogo fumoso per una settimana e poi sospesi tra i muri di pietra centenari di stanze asciutte e aerate, per un periodo che va dai dodici ai venti mesi al massimo. Durante le diverse fasi della lavorazione subiscono una serie di pressature in torchi di legno. Per tradizione la fetta, tagliata spessa, si consuma a tocchetti.

I Tipici

Melannurca Campana IGP

La “Melannurca Campana” IGP è presente in Campania da almeno due millenni. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissima legame dell’Annurca con il mondo romano e la Campania felix in particolare. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, dove è presente il lago di Averno, sede degli Inferi, Plinio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli Inferi). Anche Gian Battista della Porta, nel 1583, nel suo “Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente: (… le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…). Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale. Tradizionalmente coltivata nell’area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la “Melannurca Campana” IGP si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree aversana, maddalonese e beneventana, poi via via nel nocerino, nell’irno, i picentini e infine in tutta l’area dell’alto casertano. Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell’area napoletana a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata. L’Indicazione geografica protetta “Melannurca Campana” si riferisce ad una delle varietà italiane di melo più conosciute e più apprezzate in assoluto dai consumatori: l’Annurca. Definita la “regina delle mele”, infatti, l’Annurca è da sempre conosciuta soprattutto per la spiccata qualità dei suoi frutti, dalla polpa croccante, compatta, bianca, gradevolmente acidula e succosa, con aroma caratteristico e profumo finissimo, una vera delizia per gli intenditori. Il frutto è medio-piccolo, di forma appiattita-rotondeggiante, leggermente asimmetrica, con picciolo corto e debole. La buccia, liscia, cerosa, mediamente rugginosa nella cavità peduncolare, è di colore giallo-verde, con striature di rosso su circa il 60-70% della superficie a completa maturazione, percentuale di sovraccolore che raggiunge l’80-90% dopo il periodo di arrossamento a terra. La “Melannurca Campana” IGP rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva per l’alto contenuto in vitamine (B1, B2, PP e C) e minerali (potassio, ferro, fosforo, manganese), ricca di fibre, regola le funzioni intestinali, è diuretica, particolarmente adatta ai bambini ed agli anziani, è indicata spesso nelle diete ai malati e in particolare ai diabetici. Anche per l’eccezionale rapporto acidi/zuccheri, le sue qualità organolettiche non trovano riscontro in altre varietà di mele. Una recente ricerca del Dipartimento di scienza degli alimenti dell’Universià di Napoli Federico II ha dimostrato che la mela Annurca dimezza i danni ossidativi alle cellule epiteliali gastriche. La sua azione gastroprotettiva dipende dalla ricchezza in composti fenolici, che sono in grado di prevenire così i danni ossidativi dell’apparato gastrico e aiutando a combattere le malattie gastriche legate all’azione di radicali liberi. Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano la “Melannurca Campana” IGP è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”. Essi sono costituiti da piccoli appezzamenti di terreno, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici, di larghezza non superiore a metri 1,50 su cui sono stesi strati di materiale soffice vario: un tempo si utilizzava la canapa, oggi sostituita da aghi di pino, trucioli di legna o altro materiale vegetale. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare i melai sono protetti da apprestamenti di varia natura. Durante la permanenza nei melai i frutti sono disposti su file esponendo alla luce la parte meno arrossata, vengono poi periodicamente rigirati ed accuratamente scelti, scartando quelli intaccati o marciti. E’ proprio questa pratica, volta a completare la maturazione dei frutti adottando metodi tradizionali e procedure effettuate tutte a mano, ad esaltare le caratteristiche qualitative della “Melannurca Campana” IGP, conferendogli quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Due gli ecotipi previsti dal disciplinare di produzione, con due distinte indicazioni varietali in etichetta: l’ “Annurca” classica e la diretta discendente “Annurca Rossa del Sud”, suo mutante naturale, diffuso nell’area di produzione da oltre un ventennio, che ha il pregio di produrre frutti a buccia rossa già sulla pianta. I frutti di maggior pregio, soprattutto dal punto di vista organolettico, a detta degli esperti sono quelli provenienti da piante innestate su franco, allevate a pieno vento e con scarsi apporti irrigui. Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, finora apprezzate soprattutto dai consumatori meridionali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche al riconoscimento del marchio di tutela e all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata. Accanto ai succhi, di grande valore nutritivo, ottimi sono anche i liquori ottenuti dalle annurche, così come i dolci (crostate e sfogliatelle su tutti, ma anche le mitiche e tradizionali “mele cotte” al forno). Di recente, attraverso un programma di educazione alimentare della Regione Campania, la “Melannurca Campana” IGP è proposta al consumo dei bambini in visita a Città della Scienza nella forma commerciale della “quarta gamma” (confezione sigillata di una mela sbucciata e affettata in grado di mantenere inalterata per giorni la freschezza e l’aroma). Mele al mieleLavare e asciugare le mele privandole del torsolo senza eliminare il fondo del frutto. Disporre le mele cosi’ tagliate in una pirofila colmandole dal foro centrale con un cucchiaio di miele. Innaffiare con vino bianco e infornare in un forno già caldo a 180° per circa 15 minuti. Spolverizzare con lo zucchero prima di servire

Ricette, Tradizioni

Past’ e ‘llesse

Il termine pastellessa deriva da una specialità tipica della cucina povera: la past’ e ‘llesse (o past’ e ‘llessa),ovvero la pasta con le castagne lesse. A Macerata Campania, in occasione della festa antoniana, la tradizione vuole che si prepari tale ricetta, in cui il dolce della castagna insieme al piccante del peperoncino crea un gusto abbastanza gradevole. Questo piatto si accompagna bene al vino di uva fragola prodotto con vitigni autoctoni, quasi ormai inesistenti in territorio maceratese Ingredienti per 4 persone:– 200 g di castagne lesse. Origine: Roccamonfina (Caserta)– 300 g di pasta di tipo corto, come tubettoni o ditaloni (meglio integrali) – 100 g di pancetta- Aglio- Olio d’oliva extravergine– Peperoncino- Sale per una buona riuscita della ricetta si consiglia, un giorno prima della preparazione, di mettere le castagne lesse a bagno in acqua e bicarbonato di sodio. Ciò consente di pulire e ammorbidire in modo adeguato le castagne lesse.Preparazione:1. Preparate il soffritto con pancetta, aglio, olio e peperoncino: mentre tagliate la pancetta a dadini, fatesoffriggere aglio e peperoncino nell’olio d’oliva in una padella capiente; quindi aggiungete anche lapancetta. Fate soffriggere bene la pancetta fino a che non è bella colorita.2. Aggiungete le castagne lesse nella padella col soffritto, facendo insaporire il tutto a fuoco lento.3. Contemporaneamente mettete a cuocere la pasta, salandola al punto giusto; quindi scolate la pastaal dente, per poi saltarla in padella per qualche minuto con il soffritto e le castagne lesse.4. Servite a tavola il piatto fumante

I Tipici

Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP

La coltivazione del Pomodorino del Piennolo sulle falde del Vesuvio ha senza dubbio radici antiche e ben documentate. Per limitarci alle testimonianze storiche più illustri, notizie sul prodotto sono riportate dal Bruni, nel 1858, nel suo “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, ove parla di pomodori a ciliegia, molto saporiti, che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”.Altra fonte letteraria attendibile è quella di Palmieri, che sull’Annuario della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà di Agraria), del 1885, parla della pratica nell’area vesuviana di conservare le bacche della varietà p’appennere in luoghi ombrati e ventilati. Francesco De Rosa, altro professore della Scuola di Portici, su “Italia Orticola” del novembre 1902, precisava che la vecchia “cerasella” vesuviana era stata via via sostituita dal tipo “a fiaschetto”, più indicato per la conservazione al piennolo. Il De Rosa è anche il primo ricercatore che riporta in modo esaustivo l’intera tecnica di coltivazione dei pomodorini vesuviani, facendo intendere così che si stava sviluppando nell’area un’intera economia intorno a questo prodotto, dalla produzione delle piantine da seme alla vendita del prodotto conservato. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” è uno dei prodotti più antichi e tipici dell’agricoltura campana, tanto da essere perfino rappresentato nella scena del tradizionale presepe napoletano.In realtà, in diversi territori della Campania, esistono raggruppamenti di ecotipi con bacche di piccola pezzatura, i cosiddetti “pomodorini”, che si distinguono tra loro per tipicità, rusticità e qualità organolettica. I più famosi da sempre sono però quelli tuttora diffusi sulle pendici del Vesuvio. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” raggruppa vecchie cultivar e biotipi locali accomunati da caratteristiche morfologiche e qualitative più o meno simili, la cui selezione è stata curata nei decenni dagli stessi agricoltori. Le denominazioni di tali ecotipi sono quelle popolari attribuite dagli stessi produttori locali, come “Fiaschella”, “Lampadina”, “Patanara”, “Principe Borghese” e “Re Umberto”, tradizionalmente coltivati da secoli nello stesso territorio di origine. Le caratteristiche distintive, a livello tecnico-mercantile, del prodotto ammesso a tutela sono:allo stato fresco: frutti di forma ovale o leggermente pruniforme con apice appuntito e frequente costolatura della parte peduncolare, buccia spessa di colore rosso vermiglio, pezzatura non superiore a 25 g, polpa di consistenza elevata e di colore rosso, sapore vivace intenso e dolce-acidulo;conservato al piennolo: colore della buccia rosso scuro, polpa di buona consistenza di colore rosso, sapore intenso e vivace. I “piennoli” o “schiocche” presentano un peso, a fine conservazione, variabile tra 1 e 5 chilogrammi. Agli effetti dell’azione di tutela si è riscontrato che l’aspetto peculiare di tipicità che accomuna i pomodorini vesuviani è l’antica pratica di conservazione “al piennolo”, cioè una caratteristica tecnica per legare fra di loro alcuni grappoli o “scocche” di pomodorini maturi, fino a formare un grande grappolo che viene poi sospeso in locali aerati, assicurando così l’ottimale conservazione del prezioso raccolto fino al termine dell’inverno. Nel corso dei mesi il pomodorino, pur perdendo il suo turgore, assume un sapore unico e delizioso, che soprattutto i napoletani apprezzano particolarmente per preparare sughi prelibati ed invitanti. E’ appunto il sistema di conservazione al “piennolo” che, favorendo una lenta maturazione, consente altresì una lunga conservazione, con la conseguente possibilità di consumare il prodotto “al naturale” fino alla primavera seguente.

I Tipici

Limone di Sorrento IGP

Di origini antiche, se è vero che la presenza di limoni nell’area sorrentina è certificata da documenti storici del 1500, il “Limone di Sorrento” IGP ha in effetti antenati genetici che risalgono addirittura all’epoca romana. Su numerosi dipinti e mosaici rinvenuti negli scavi di Pompei ed Ercolano sono raffigurati infatti limoni molto simili agli attuali “massesi” e “ovali sorrentini” che testimoniano l’utilizzo di tali frutti profumati sulle mense dei nostri avi latini. Ma le più importanti documentazioni sulla presenza di limoni nella zona risalgono all’epoca rinascimentale. Atti di vendita, dipinti, trattati di letteratura e di botanica ci raccontano dell’impiego dei limoni prodotti localmente per i più svariati usi, anche se dobbiamo attendere il 1600 per avere la certezza della coltivazione in forma specializzata, come risulta dagli atti dei locali Padri Gesuiti. Ancora oggi esiste uno dei primi fondi coltivati, nominato appunto “Il Gesù”, situato nella Conca di Guarazzanno, tra Sorrento e Massalubrense. Questa testimonianza avvalora la tesi che è proprio da questi due comuni della Penisola Sorrentina che hanno avuto origine i nomi della varietà da cui si trae il prodotto: “Ovale di Sorrento” e “Massese”. Citato nelle opere di Torquato Tasso, nativo proprio di Sorrento, Giovanni Pontano e Giambattista della Porta, il “Limone di Sorrento” arriva fino all’800, quando lo storico Bonaventura da Sorrento ne testimonia la spedizione in tutto il mondo, soprattutto attraverso i bastimenti diretti verso l’America. Si deve comunque alla tenacia e alle capacità dei produttori locali, che sono andate sviluppandosi nel corso dei secoli, se oggi disponiamo di un prodotto altamente selezionato e di assoluta qualità. E’ soprattutto grazie al loro impegno che lo stesso paesaggio è andato a conformarsi alle loro esigenze: i famosi terrazzamenti e le mitiche “coperture” dei limoneti, qui denominati a giusta ragione “giardini di limone”, connotano fortemente la penisola sorrentina e contribuiscono alla sua fama nel mondo. Le caratteristiche di qualità del “Limone di Sorrento” IGP sono esaltate dalle particolari tecniche di produzione, ancora legate alla coltivazione delle piante sotto le famose “pagliarelle”, stuoie di paglia che vengono appoggiate a pali di sostegno di legno, solitamente di castagno, a copertura delle chiome degli alberi, al fine di proteggerli soprattutto dal freddo e dal vento e per conseguire anche un ritardo della maturazione dei frutti, che rappresenta uno dei principali elementi di tipicità di questa produzione. Area di produzione Il “Limone di Sorrento” IGP viene coltivato in tutti i comuni della Penisola Sorrentina e precisamente: Massa Lubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento, Vico Equense, oltre che nell’isola di Capri, con i due comuni Capri ed Anacapri. fonte regionecampania.it

Ricette

Coniglio all’ischitana

Documenti testimoniano che già dal principio del XVIII secolo i contadini allevavano i conigli in fosse scavate nel tufo di circa 2 m di profondità, al riparo dal vento, dal freddo, dal caldo e dalla pioggia. Questo allevamento in stato semiselvatico consentiva un‘alimentazione a base di erbe spontanee, a pieno vantaggio del sapore della carne. Oggi il coniglio da fossa è sempre più raro, ma grazie anche al Presidio Slow Food da qualche anno la tradizione è stata recuperata.  Ingredienti: 1 coniglio da circa 1,5 Kg, 150 gr di pomodorini maturi spezzettati e scolati, prezzemolo, basilico, 1 bicchiere di vino bianco, 1,5 dl di olio d’oliva, aglio, peperoncino, maggiorana, timo, basilico, rosmarino, sale e pepe.  Procedimento: Tagliate a pezzi il coniglio, lavatelo con il vino, asciugatelo con un panno asciutto e separatelo dalle interiora. Fate imbiondire nell’olio l’aglio e il peperoncino interi, in un tegame preferibilmente di terracotta, poi toglieteli e metteteli da parte. Rosolate tutti i pezzi del coniglio (comprese le interiora) nello stesso olio ben caldo e quando è ben colorito aggiungete aglio e peperoncino, sale e pepe e uno spruzzo di vino bianco. Fate cuocere a fuoco moderato per una trentina di minuti, rigirando di tanto in tanto ed eventualmente aggiungendo del brodo o altro vino. Unite i pomodori e le erbe aromatiche. Lasciate andare dolcemente per altri 20 minuti circa, sempre girando di tanto in tanto, fino a quando il fondo di cottura non sarà ben ristretto. Uno dei segreti per la riuscita di questo piatto consiste nel farlo “tirare” fin quasi a farlo attaccare, per poi allungare un po’ il fondo di cottura con brodo o acqua qualche minuto prima di spegnere la fiamma.

I Tipici

Mozzarella di Bufala Campana DOP

Le origini della Mozzarella di Bufala Campana Dop – oggi prodotta in Campania, Lazio, Molise e Puglia – sono collegate alla presenza del bufalo in Italia, secondo alcuni originario dell’India orientale, secondo altri di origine autoctone e secondo altri ancora introdotto dai Longobardi o dai Normanni intorno all’anno 1000. La confusione forse è dovuta al fatto che i Romani chiamavano bubalus buoi, alci ed altri ruminanti. Il nome della mozzarella, che deriva dall’operazione finale di formatura a mano, viene citato per la prima volta da un cuoco della corte papale nel XVI secolo. Ma già nel XII secolo, in occasione della festa del santo patrono, i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua nel casertano usavano offrire una “mozza o provatura” accompagnata da un pezzo di pane. A metà del Settecento i Borboni crearono un allevamento di bufalo e un caseificio nella tenuta reale di Carditello. Nelle piane del Volturno e del Sele sono ancora visibili le antiche bufalare, costruzioni circolari in muratura con al centro un camino per la lavorazione del latte e piccoli ambienti destinati all’alloggio dei bufalari. Descrizione: Latticino freso a pasta filata ricavato esclusivamente da latte di bufala intero fresco, particolarmente ricco in grasso e proteine. Al termine della maturazione, la cagliata viene ridotta a strisce, tritata e posta in appositi mastelli. Segue la lavorazione a mano in acqua bollente, fino a farla “filare” per ottenere la particolare consistenza e il bouquet determinati dalla microflora che si sviluppa durante la lavorazione. Viene quindi mozzata in singoli pezzi nelle forme e dimensioni previste e posta prima in acqua, fino a rassodamento, e poi in salamoia. Disciplinare: Reg. CE n. 1107 del 12.06.96 (GUCE L 148 del 21.06.96)

Vini

Ischia DOC

La viticoltura ad Ischia, di origini millenarie, è stata alla base dell’economia isolana per lunghi periodi storici. La vite vi fu introdotta dagli antichi greci della Calcide, i Romani chiamarono l’isola “Enaria” (terra del vino). A partire dal 1500 il vino bianco sfuso veniva esportato, nei “carrati” trasportati dalle vinacciere (barche a vela), verso i principali mercati italiani e stranieri fino in Dalmazia. Il clima mite favorito dalla particolare formazione a cono dell’isola e dalla posizione geografica nel Mar Tirreno centrale, e l’esposizione dei vigneti in ambiente ventilato e luminoso contribuiscono ad un vino di alta qualità. Le colture si estendono dalle coste fin sugli irti pendii montani, solcati da cellai e terrazzamenti costruiti con rinforzi di muri a secco di pietra di tufo verde. In alcune aree la vite è ancora allevata a curruturu, forma arcaica tradizionale. Descrizione: Colore giallo paglierino più o meno intenso (Bianco e Forastera) o con riflessi verdognoli (Biancolella), rosso rubino più o meno intenso (Rosso e Piedirosso). Odore vinoso (Rosso), vinoso, gradevole delicato (Bianco) o caratteristico (Biancolella), vinoso caratteristico delicato (Forastera) o gradevole (Piedirosso). Sapore secco, di giusto corpo, armonico (Bianco, Biancolella e Forastera), asciutto, di medio corpo, giustamente tannico (Rosso e Piedirosso). Titolo alcol. min. 10% (Bianco, Biancolella, Forastera), 10,5% (Rosso e Piedirosso). Abbinamenti: da aperitivo o con antipasti di mare, fritture di pesce, pizza alla marinara, sughi di mare in bianco, pesce nobile e crostacei, alici ammollicate, polpo all’insalata, sautè, cuoccio all’acqua pazza (Bianco, Biancolella e Forastera); con arrosti di carni rosse e cacciagione, formaggi a pasta semidura non stagionati e stagionati, coniglio all’ischitana (Rosso e Piedirosso). Tipologie: Ischia Bianco anche Superiore e Spumante, Ischia Rosso, Ischia Forastera, Ischia Biancolella, Ischia Piedirosso o Per’ e Palummo anche Passito. Vitigni: Forastera 45-70% e Biancolella 30-55% (Bianco), Biancolella 85-100% (Biancolella), Forastera 85-100% (Forastera), Guarnaccia 40-50% e Piedirosso 40-50% (Rosso), Piedirosso 85-100% (Piedirosso). Altri vitigni a bacca bianca non aromatici 0-15%. Disciplinare: Approvato DOC con DPR 03.03.1966 (G.U. 122 – 09.05.1966)

I Tipici

Pasta di Gragnano IGP

La produzione della pasta, in particolare dei “maccaroni”, che ha reso famosa Gragnano nel mondo, risale alla fine del XVI secolo quando compaiono i primi pastifici a conduzione familiare. Gragnano era allora già famosa per la produzione dei tessuti (da qui piazza Aubry deve il nome popolare di “piazza conceria” ). La produzione dei maccaroni diventò veramente importante solo a partire dalla metà del XVII secolo quando la maggior parte dei gragnanesi si dedicò alla produzione della pasta. La produzione dell’ “oro bianco” era ed è favorita da particolari condizioni climatiche , come una leggera aria umida che permette la lenta essiccazione dei maccaroni. L’industria pastaia venne aiutata da ben 30 mulini ad acqua , i ruderi di alcuni di questi si possono ammirare nella “valle dei mulini”.Intanto il settore dell’industria tessile entrava in crisi e chiuse definitivamente nel 1783 per una morìa dei bachi che bloccò la produzione della seta. Da allora i gragnanesi si dedicarono alla “manifattura della pasta”. L’epoca d’oro della pasta di Gragnano è l’Ottocento. In questo secolo sorsero grandi pastifici a conduzione non familiare lungo via roma e piazza trivione che diventarono così il centro di Gragnano.I pastifici infatti esponevano i maccheroni ad essiccare proprio in queste strade. La produzione dei maccaroni non rallentò dopo l’ Unificazione, anzi. Dopo il 1861 i pastifici gragnanesi si aprirono ai mercati di città come Torino, Firenze e Milano. La produzione della pasta raggiunse quindi l’apice. Gragnano addirittura ottenne l’apertura di una stazione ferroviaria per l’esportazione dei maccheroni che collegava Gragnano a Napoli e quindi all’intero Paese. Il 12 maggio 1885, all’inaugurazione erano presenti nientemeno che il re Umberto I e sua moglie, la regina Margherita di Savoia. Successivamente i pastifici si ammodernarono. Arrivò l’energia elettrica e con questa i moderni macchinari che sostituirono gli antichi torchi azionati a mano. Il Novecento fu però un secolo difficile per la città della pasta. Le due Guerre Mondiali fecero entrare in crisi la produzione della pasta gragnanese che nel Dopoguerra dovette affrontare la concorrenza dei grandi pastifici del Nord Italia, che disponevano di capitali maggiori. Il terremoto del 1980 aggravò la situazione e ridusse il numero di pastifici a sole 8 unità. Nonostante i tanti problemi, Gragnano continua a essere la città della pasta. Oggi i pastifici puntano ad una produzione di qualità e propongo itinerari turistici alla scoperta della produzione di quella pasta che ha reso Gragnano famosa in tutto il mondo.

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