DOP

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Il formaggio PIAVE DOP espressione del territorio

Dopo il vino senza alcool avremo anche il formaggio senza latte ? E’ di questi giorni la notizia che l’Unione Europea vorrebbe annacquare il vino cosa questa che rappresenta un pesante attacco ai prodotti simboli del Made in Italy, se passasse questa impostazione si potrebbe anche aprire la strada a frodi e contraffazioni oltre che a mettere a rischio i nostri prodotti di qualità del settore agroalimentare. I prodotti che maggiormente caratterizzano il nostro Paese sono i formaggi tradizionali che hanno forti legami con il loro territorio di origine e testimoniano la storia e la cultura della comunità che li produce, con caratteristiche organolettiche uniche legate a diversi fattori di biodiversità: l’ambiente, il clima, il pascolo naturale, la razza degli animali, l’uso del latte crudo e la sua microflora naturale, la tecnologia casearia e le condizioni naturali di maturazione e invecchiamento. Il formaggio Piave DOP è espressione del territorio dove viene prodotto e porta con sé, negli oltre 30 paesi dove viene esportato, un ricco patrimonio ambientale, alimentare e culturale. La produzione del formaggio è stata tramandata di generazione in generazione nel bellunese e le sue origini risalgono alla fine del 1800 con la fondazione delle prime latterie turnarie montane d’Italia, usanza antica di mettere assieme il latte di più famiglie. Il Consorzio per la Tutela Formaggio Piave DOP (www.formaggiopiave.it) , che ha sede a Busche di Cesiomaggiore (BL), nasce nel 2010 per tutelare la DOP da abusi e contraffazioni, nonché salvaguardare la tipicità e le caratteristiche peculiari del formaggio e di promuovere la sua conoscenza. La provincia di Belluno, zona di origine di tale prodotto eccellente, rientra nel territorio delle Dolomiti italiane, patrimonio dell’UNESCO. Una montagna dura e difficile dove l’agricoltura, da tempi lontani, ha espresso una naturale vocazione    all’allevamento del bestiame da latte, date le difficoltà nel praticare le colture intensive tipiche della pianura. Un clima rigido con abbondanti precipitazioni nevose caratterizzano il territorio durante il periodo invernale, mentre le estati sono brevi e fresche, il Bellunese rappresenta, anche per il carattere della gente, il tipico ambiente alpino, orgoglioso delle proprie tradizioni tramandate nel tempo attraverso l’esperienza e la narrazione orale. È nei boschi, nei prati e nei pascoli della montagna bellunese che inizia il percorso per la produzione del formaggio Piave DOP. Spesso i prati sono frutto di interventi attuati dagli stessi allevatori per riportarli alla naturale ricchezza che l’andamento climatico riduce. Nei prati e nei pascoli si produce il particolare fieno, per l’alpeggio estivo. Infatti solo da un ambiente integro e curato nascono progetti che hanno futuro e che pensano alle nuove generazioni. Dal punto di vista alimentare il formaggio Piave rappresenta un eccellente candidato della Dieta Mediterranea, modello nutrizionale riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità ed indicato dalla FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) come tra i più sostenibile del pianeta. Il formaggio Piave DOP viene prodotto secondo le antiche regole dell’arte casearia, oggi raccolte in un “Disciplinare di produzione”, utilizzando esclusivamente il latte vaccino prodotto in allevamenti della provincia di Belluno, la parte più settentrionale del Veneto, incuneata tra il Trentino Alto Adige a Nord Ovest e Friuli ad Est. Grazie alla lavorazione e alla qualità delle materie prime utilizzate il formaggio Piave DOP ha ottenuto nel 2010 la Denominazione d’Origine Protetta, massimo riconoscimento della Comunità Europea per un prodotto alimentare di qualità. Il futuro dei ristoranti e del ruolo degli chef, ma anche del cibo come cardine per la salute delle persone e dell’ambiente, il futuro della filiera alimentare, dell’agricoltura, della produzione, il gusto delle Dolomiti, la qualità sostenibile del Piave DOP è stato al centro di un dibattito con Chiara Brandalise, direttrice del Consorzio per la Tutela del Formaggio Piave DOP, «È per noi una prestigiosa occasione per raccontare le origini del nostro prodotto, le sue caratteristiche, la qualità che contraddistingue la nostra DOP in tutta la sua filiera e l’attenzione che riserviamo all’ambiente e all’eco sostenibilità» racconta Chiara Brandalise. La pandemia colpisce anche le degustazioni in loco, pertanto la prima edizione della  “Piave DOP Home Experience”, di Formaggio Piave DOP si è tenuta interamente in modalità digitale, a cura di “Nice To Eat-Eu”, il progetto che promuove e divulga contenuti e caratteristiche del Formaggio Piave DOP in Italia e oltreconfine. Il  progetto ha previsto anche un ricettario studiato  dai migliori chef di Vienna scaricabile dal sito ufficiale  www.nicetoeat.eu/ricette, oppure utilizzando l’apposita applicazione di realtà aumentata  “Piave DOP & Nice to Eat EU  AR”, nella sezione ricette. In 3D sarà possibile scoprire tutto sul formaggio, da come viene prodotto, i territori in cui vivono e pascolano le pregiate razze di mucche, dando ottimi suggerimenti  per la creazione di nuovi piatti adatti sia agli “chef più esperti” che ai “piccoli chef” amanti del formaggio  che vogliono avvicinarsi alla buona cucina.  Harry di Prisco

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Robiola di Roccaverano DOP

Le origini storiche sono riferite al periodo celtico-ligure, in seguito raccontato da Plinio e Pantaleone, che ne apprezzarono le qualità e ne illustrarono il ciclo produttivo. Secondo alcuni questo formaggio avrebbe origini nelle Langhe, dove i Liguri producevano la Robiola, dal caratteristico colore rossiccio della crosta, con stagionatura molto prolungata. Altri ne ritengono la nascita nelle Vallate Prealpine Lombarde, con il diffondersi nelle zone di pianura del Piemonte ed il nome avrebbe origini da Robbio in Lomellina, provincia di Pavia. Formaggio senza stagionatura né maturazione, assolutamente fresco, di forma cilindrica, piuttosto grasso, prodotto con latte vaccino, di capra e pecora, provenienti da due mungiture al giorno. Pasta granulosa, colore bianco latte, aroma delicato, sapore acidulo. Nella Robiola di Roccaverano gli aromi ed i sapori si presentano decisi fino al piccante in funzione della stagionatura. L’assegnazione della Denominazione d’Origine Protetta è avvenuta il 14 marzo 1979 con DPR che identifica le caratteristiche nel seguente modo:” Formaggio grasso a pasta fresca non sottoposto ad alcuna maturazione o stagionatura prodotto con latte di vacca in misura massima del 85% e di capra e pecora in rapporto variabile o in purezza, in misura minima del 15%, proveniente da due mungiture giornaliere, parzialmente decretato per affioramento. L’alimentazione base delle vacche, capre e pecore deve essere costituita da foraggi verdi o conservati. Si produce durante l’intero anno”. Viene prodotta in numerosi comuni della provincia di Asti e Alessandria.

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Valtellina Casera DOP

Il Valtellina Casera si ottiene dal latte prodotto negli allevamenti della provincia di Sondrio che viene lavorato tutti i giorni nei caseifici di fondovalle. La stagionatura delle forme avviene nelle tradizionali ‘casere’ o in adeguate strutture, per almeno 70 giorni prima di poter essere marchiate a fuoco. Le origini del Valtellina Casera risalgono al 1500 quando più allevatori univano il loro latte per effettuare una lavorazione collettiva nelle latterie turnarie e sociali, mettendo in atto una forma di risparmio e di condivisione dei momenti di vita. Il Valtellina Casera è prodotto con latte vaccino parzialmente scremato, quindi risulta più leggero e meno calorico rispetto al Bitto, ideale da portare in tavola ogni giorno. L’alimentazione delle bovine da cui deriva il latte è costituita prevalentemente da essenze spontanee ed erbai È un formaggio semigrasso, a pasta semicotta e semidura, prodotto lavorando il latte vaccino proveniente esclusivamente dagli allevamenti della provincia di Sondrio che viene parzialmente scremato prima di essere lavorato nei caseifici locali. Il sapore del Valtellina Casera giovane si sposa con il grano saraceno per dar vita ai piatti della tradizione valtellinese, i pizzoccheri e gli sciatt. Consorzio di Tutela

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Montasio DOP

Il Montasio nasce verso il 1200 nelle vallate delle Alpi Giulie e Carniche grazie alla costanza e intelligenza dei frati Benedettini. A Moggio Udinese (sul versante nord del Montasio) si trova il convento, oggi utilizzato dalle suore Clarisse, in cui probabilmente vennero affinate e riportate le varie tecniche di produzione proprie dei malghesi della zona. Questa tecnologia produttiva trovò ben presto una notevole diffusione nelle vallate di tutta la Carnia e nella Pianura Friulano-Veneta. I primi documenti che riportano la dicitura “Formaggio Montasio” sono i prezziari della città di San Daniele, datati 1775, che stabiliscono il prezzo del Montasio di molto superiore alla media degli altri formaggi. Da quel momento il Montasio è sempre stato presente in tutti i documenti mercantili dell’Italia nord-Orientale.pasta: compatta con leggera occhiatura;colore: naturale, leggermente paglierino; aroma: caratteristico;sapore: piccante e gradevole.

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Raschera DOP

Le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Documenti storici (datati 1460-1520) parlano di concessioni ad allevatori di alta montagna che, per l’uso dei pascoli, dovevano pagare il signore locale “in natura” con “i pregievoli formaggi che ivi si producevano e che avevano sapori esclusivi“. Il nome deriva dall’omonimo lago ai piedi del Monte Mongioie. La forma quadrata serviva a rendere più agevole il trasporto a valle, a dorso di mulo, dei formaggi prodotti ad alta quota, all’arrivo di condizioni atmosferiche avverse. Il territorio della provincia di Cuneo, su cui si può produrre la Raschera, è di tipo alluvionale, con terreni freschi e carichi di acqua che danno foraggi di notevole qualità e quantità. La zona di produzione del Raschera di Alpeggio, nel versante sud delle Alpi Marittime, ha invece suoli carsici, prati e boschi pascolivi ricchi di essenze botaniche che trasmettono sapori particolari al latte delle vacche perlopiù di Razza Piemontese. Descrizione: Formaggio semigrasso, pressato, ottenuto da latte crudo. La cagliata viene sbattuta con un attrezzo caratteristico, una sorta di spino, chiamato “sbattella”. Le forme – dai 7 ai 9 kg per le rotonde e fino a 10 kg per le quadrate – stagionano da un minimo di 45 giorni fino ai 3 mesi. Il sapore è fine, delicato, tipicamente profumato e moderatamente piccante e sapido se stagionato. Si consuma a tavola anche accompagnato da verdure appena lessate e ripassate in padella, oppure come ingrediente di paste, risotti, gnocchetti e polenta.

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Marrone di San Zeno DOP

Per gli agricoltori della zona la castanicoltura ha rappresentato per lunghi secoli una risorsa economica importante. I primi riferimenti storici sulla coltivazione del castagno risalgono, infatti, al Medioevo. Testimonianze scritte sulla coltivazione del Marrone di San Zeno si ritrovano nel XIII, XIV, XV II e XIX secolo. In questi testi vengono individuate le zone caratteristiche di produzione e descritto il prosperoso sviluppo dei castagni e i metodi di raccolta e commercializzazione dei marroni sui mercati settimanali, tradizione che ha ripreso vigore nel secondo dopoguerra.Nelle zone di montagna i marroni hanno rappresentato per secoli uno dei principali alimenti: oltre che consumati come frutti, con la farina si preparavano anche pane, pasta, dolci e polenta. I frutti freschi erano arrostiti nella particolare padella forata e, accompagnati al vino nuovo, diventavano emblema della festa di ringraziamento per l’annata agricola, dedicata a San Martino. Come in altre parti del Veneto anche in questi territori, la festa era legata alla prima questua annuale e al rito deimorti, in occasione del quale si confezionavano anche particolari biscotti con la farina di castagne.Testimonianze scritte della coltivazione del Marrone di San Zeno risalgono al XIII secolo e successivi; esse individuano le zone tipiche di produzione, anche attraverso gli estimi catastali, e descrivono il prosperoso sviluppo dei castagni, nonché i metodi di raccolta. La commercializzazione dei marroni avveniva già dalla fi ne del secolo XIX per via diretta, tramite negozianti, oppure sul mercato settimanale di Caprino Veronese, o su quello di Verona; questa tradizione ha ripreso vigore nel secondo dopoguerra. fonte Venetoagricoltura.it

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Capocollo di Calabria DOP

Capocollo è il nome che nelle regioni del Centro e del Sud Italia viene dato alla coppa, derivando infatti dallo stesso taglio anche se le lavorazioni sono diverse: in Puglia per esempio si lava con una mistura di vino cotto e spezie e si sottopone ad una lieve affumicatura; in Umbria invece lo si aromatizza con pepe, aglio, coriandolo e semi di finocchio, mentre in Basilicata va cosparso con peperoncino tritato e, fino a poco tempo fa, lasciato stagionare nella tela grezza. Sono del ‘600 le prime documentazioni sulla lavorazione delle carni suine in Calabria, ma le loro origini risalgono al periodo della colonizzazione greca delle coste ioniche. La DOP regolamenta i “Salumi di Calabria: Soppressata, Capocollo, Salsiccia e Pancetta” prescrivendo per tutti l’uso delle razze tradizionali di taglia grande quali la Calabrese o la Large White e la Landrace, alimentati per almeno il 50% con orzo, favino, mais, ghiande e ceci. Il capocollo è preparato con le carni della parte superiore del lombo dei suini, disossato, salato a secco e stagionato per almeno di 100 giorni in locali a temperatura e umidità controllate. Di forma cilindrica, avvolto in pellicola naturale , viene legato a mano in forma avvolgente con spago naturale. Alla vista presenta un colore roseo o rosso più o meno intenso per la presenza di pepe nero o peperoncino rosso macinato. La fetta, al taglio, si presenta di colore roseo vivo con striature di grasso proprie del lombo suino. Il sapore è delicato che si affina con la maturazione; il profumo è caratteristico e di giusta intensità.

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Formaggio di fossa di Sogliano DOP

L’uso di infossare, per conservare i prodotti e proteggerli dalle razzie dei soldati, si diffuse a partire dal Medioevo nelle valli del Rubicone e del Marecchia, a cavallo della Romagna e delle Marche. Questa DOP deve le sue peculiarità proprio al tipo di stagionatura cui è sottoposta, oltre che alla materia prima che nei sotterranei va a rifermentare. Dopo una maturazione di almeno 30 giorni, le forme – dentro sacchi di tela su cui è stato scritto, con olio di lino e nerofumo, il nome del proprietario e il peso – stagionano nelle fosse scavate nel tufo, ad una temperatura di 20° e un’umidità del 90%. La sfossatura ha luogo dopo 3 mesi, il 24 novembre, giorno della festa di Santa Caterina. Descrizione:  Ricavato da latte intero, ha la forma di un cilindro irregolare, la cui crosta compatta non si distingue dalla pasta friabile, di colore bianco ambrato o leggermente paglierino. L’odore è caratteristico e persistente, con ricchi aromi che ricordano il sottobosco e sentori di muffa e di tartufo. Il sapore, delicato e dolce all’inizio, varia con il progredire della stagionatura a seconda della composizione: il pecorino ha gusto aromatico e sapore fragrante, intenso e gradevole, leggermente piccante; il vaccino è fine e delicato, moderatamente salato e leggermente acidulo, con una punta di amaro; il misto ha sapore gradevole ed equilibrato tra il saporito e l’amabile con sentori amarognoli. Ottimo da solo o accompagnato con miele e confetture di frutta, vini rossi pregiati, passiti e Marsala, viene spesso utilizzato nelle minestre romagnole (cappelletti, passatelli, ecc.) o spolverato sopra primi e secondi piatti. Disciplinare:  Reg. CE n. 1183 del 30.11.09 (GUCE L 317 del 03.12.09)

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Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP

La coltivazione del Pomodorino del Piennolo sulle falde del Vesuvio ha senza dubbio radici antiche e ben documentate. Per limitarci alle testimonianze storiche più illustri, notizie sul prodotto sono riportate dal Bruni, nel 1858, nel suo “Degli ortaggi e loro coltivazione presso la città di Napoli”, ove parla di pomodori a ciliegia, molto saporiti, che “si mantengono ottimi fino in primavera, purché legati in serti e sospesi alle soffitte”.Altra fonte letteraria attendibile è quella di Palmieri, che sull’Annuario della Reale Scuola Superiore d’Agricoltura in Portici (attuale Facoltà di Agraria), del 1885, parla della pratica nell’area vesuviana di conservare le bacche della varietà p’appennere in luoghi ombrati e ventilati. Francesco De Rosa, altro professore della Scuola di Portici, su “Italia Orticola” del novembre 1902, precisava che la vecchia “cerasella” vesuviana era stata via via sostituita dal tipo “a fiaschetto”, più indicato per la conservazione al piennolo. Il De Rosa è anche il primo ricercatore che riporta in modo esaustivo l’intera tecnica di coltivazione dei pomodorini vesuviani, facendo intendere così che si stava sviluppando nell’area un’intera economia intorno a questo prodotto, dalla produzione delle piantine da seme alla vendita del prodotto conservato. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” è uno dei prodotti più antichi e tipici dell’agricoltura campana, tanto da essere perfino rappresentato nella scena del tradizionale presepe napoletano.In realtà, in diversi territori della Campania, esistono raggruppamenti di ecotipi con bacche di piccola pezzatura, i cosiddetti “pomodorini”, che si distinguono tra loro per tipicità, rusticità e qualità organolettica. I più famosi da sempre sono però quelli tuttora diffusi sulle pendici del Vesuvio. Il “Pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP” raggruppa vecchie cultivar e biotipi locali accomunati da caratteristiche morfologiche e qualitative più o meno simili, la cui selezione è stata curata nei decenni dagli stessi agricoltori. Le denominazioni di tali ecotipi sono quelle popolari attribuite dagli stessi produttori locali, come “Fiaschella”, “Lampadina”, “Patanara”, “Principe Borghese” e “Re Umberto”, tradizionalmente coltivati da secoli nello stesso territorio di origine. Le caratteristiche distintive, a livello tecnico-mercantile, del prodotto ammesso a tutela sono:allo stato fresco: frutti di forma ovale o leggermente pruniforme con apice appuntito e frequente costolatura della parte peduncolare, buccia spessa di colore rosso vermiglio, pezzatura non superiore a 25 g, polpa di consistenza elevata e di colore rosso, sapore vivace intenso e dolce-acidulo;conservato al piennolo: colore della buccia rosso scuro, polpa di buona consistenza di colore rosso, sapore intenso e vivace. I “piennoli” o “schiocche” presentano un peso, a fine conservazione, variabile tra 1 e 5 chilogrammi. Agli effetti dell’azione di tutela si è riscontrato che l’aspetto peculiare di tipicità che accomuna i pomodorini vesuviani è l’antica pratica di conservazione “al piennolo”, cioè una caratteristica tecnica per legare fra di loro alcuni grappoli o “scocche” di pomodorini maturi, fino a formare un grande grappolo che viene poi sospeso in locali aerati, assicurando così l’ottimale conservazione del prezioso raccolto fino al termine dell’inverno. Nel corso dei mesi il pomodorino, pur perdendo il suo turgore, assume un sapore unico e delizioso, che soprattutto i napoletani apprezzano particolarmente per preparare sughi prelibati ed invitanti. E’ appunto il sistema di conservazione al “piennolo” che, favorendo una lenta maturazione, consente altresì una lunga conservazione, con la conseguente possibilità di consumare il prodotto “al naturale” fino alla primavera seguente.

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